Marco Bellocchio è stato premiato a Nyon al Festival Visions du Réel lunedì scorso con il Premio d’onore alla carriera. Un omaggio sentito quello reso al regista italiano dal pubblico svizzero.

Marco Bellocchio non ha certo bisogno di presentazioni, il regista italiano è stato accolto nei giorni scorsi a Nyon, nel Cantone Vaud, con affetto e con un bellissimo discorso della Direttrice aggiunta della Cinemateca svizzera di Losanna, Chicca Bergonzi, - anche lei piacentina come Bellocchio, anche lei nel mondo del cinema da diversi anni -, durante la premiazione al Festival Visions du réel.

In Marx può aspettare, ultima creazione di Marco Bellocchio, opera completamente autobiografica, l’autore “ricco e famoso” decide a sorpresa di mettersi a nudo e di mostrare le voragini interiori, i sensi di colpa e anche l’incapacità, a volte, di essere all’altezza nelle situazioni più difficili. Ma facciamo un passo indietro.

Marco Bellocchio è nato nel 1939, gemello di Camillo, in una famiglia con altri 5 fratelli, il maggiore Piergiorgio, fondatore dei Quaderni piacentini, un fratello pazzo “che urlava dalla mattina alla sera”, un altro divenuto un importante sindacalista e due sorelle di cui una sordomuta (simpaticissima). Famiglia particolare quella dei Bellocchio, in cui la madre credente viveva nel delirio pauroso e costante di finire tra i fuochi dell’inferno e quando resta vedova, alla morte prematura del marito per cancro, non è psicologicamente in grado di occuparsi di tutti i figli. Nelle stanze dell’appartamento dei Bellocchio presto vigerà la legge del “si salvi chi può”. Piergiorgio parte per Milano, Marco si trasferisce a Roma per inseguire il sogno del cinema, mentre Camillo, il gemello, più malinconico e sofferente, resterà a Piacenza, senza arte né parte, divertendosi con gli amici come un vero Vitellone di felliniana memoria.

I maschi di casa Bellocchio fanno presto carriera, eccetto il fratello malato e Camillo. Siamo nel 1968. In uno degli ultimi incontri che Marco ha con il suo gemello, lo incoraggia ad impegnarsi nella lotta, negli ideali e Camillo laconico gli risponde: “Marx può aspettare”. Perché un male più profondo e subdolo corrode il giovane Camillo che all’età di 29 anni metterà fine ai suoi giorni suicidandosi.

Nonostante siano passati più di cinquanta anni, il Bellocchio uomo deve fare ancora i conti con i suoi sensi di colpa. Il fratello gemello più forte fino alla fine ha ignorato le richieste di aiuto di Camillo, c’è un vuoto, ci sono diversi vuoti di memoria, Marco non ricorda neanche la lettera che Camillo gli aveva inviato, nella quale scriveva, che forse gli sarebbe piaciuto venire a Roma, da lui, e cominciare, chissà, una carriera nel mondo del cinema. La famiglia non risponde, Marco, forse, invia solo un breve messaggio, qualcosa di vago. E questo proprio prima della tragedia. Quella che non dimentichi più, quella che ogni membro della famiglia ricostruirà a modo suo, in un puzzle improbabile, ma ancora tenero, al ricordo di quel corpo raccolto da morto.

Marx può aspettare è forse il film più difficile per Marco Bellocchio e non certo per ragioni tecniche. Il suo è un testamento prima della morte, parole dello stesso Bellocchio, fatto da uno che non è un bravo attore, sempre parole sue, e che in questo documentario è costretto ad essere spesso comparsa impacciata, attore sofferente e sceneggiatore improvvisato. Il prezzo da pagare per creare qualcosa che forse non è cinema. È una preghiera recitata ad alta voce.

In questo racconto di famiglia, molte delle emozioni dei Bellocchio ancora in vita, sono come cristallizzate; e Marco è monco, è ossessionato da quell’evento, dal volto angelico del bel fratello gemello che a ben vedere, a spezzoni, qua e là, ha monopolizzato ossessivamente tutta o quasi la filmografia del regista piacentino.

Ci vuole coraggio, dopo tanti successi, a svestire i panni del “grande e famoso” e a urlare con strazio al pubblico “ho pensato a me, alla mia carriera, e non ho visto lui, Camillo”.

I conti oggi in casa Bellocchio forse sono stati regolati. Marx può aspettare è una bellissima lettera d’amore, vera e angosciante per quanto parla di vita reale, ed è la risposta che Camillo al tempo, non ricevette. Il titolo? “Caro Camillo, avevi ragione tu, Marx poteva aspettare ed io ti chiedo perdono”.