nella foto una scena del film

Da pochi giorni è nelle sale italiane Spaccaossa, opera prima cinematografica di Vincenzo Pirrotta, attore, regista, drammaturgo palermitano di lungo corso, dalla carriera teatrale variegata, intensa e premiata.

Non voglio certo invadere spazi altrui proponendo in questa sede una recensione professionale, intrisa di termini tecnici precisi e dotti, non è quello il mio mestiere. La mia vuole essere solo una selezione di alcune riflessioni personali, tra le tante che la pellicola stimola, che la visione del film mi ha suscitato.

La vicenda narrata nel film, scritto diretto e interpretato magistralmente dallo stesso Pirrotta, è nota alla cronaca nera. Un gruppo di delinquenti di piccolo cabotaggio, capeggiati da Michele (un Giovanni Calcagno in splendida forma), esperto assicuratore, inscenano finti incidenti stradali per le vie della città per intascare il risarcimento previsto in quei casi dalle assicurazioni. Per raggiungere il risultato truffaldino però è necessaria una vittima vera, un povero Cristo disposto a farsi rompere un braccio o una gamba per rendere la truffa possibile. I proventi però, solo in minima parte andranno nelle tasche del poveretto che per necessità materiali, si è prestato alla sevizia. L'organizzazione criminale invece incassa, com'è prevedibile, la maggior parte delle somme erogate dalle assicurazioni.

Tanti i personaggi coinvolti, tutti a vario titolo costretti a farlo perché sbatacchiati dalla vita agra che gli è capitato vivere. Piccoli delinquenti che trovano così modo di tirare avanti economicamente, svolgendo ognuno un ruolo importante nell’articolato meccanismo criminale, sebbene non tutti siano allo stesso modo compiaciuti da ciò che fanno. È questo il caso di Vincenzo, il protagonista di questa storia amara interpretato in modo toccante dallo stesso Pirrotta. È lui lo sguardo attraverso il quale seguiamo le vicende narrate. Uno sguardo, che come tutto nel film, non fa sconti allo spettatore nel solco austero di un cinema neorealista rivisitato, restituendoci così per intero la crudezza dei fatti accaduti. Rimanendo sul versante degli sguardi si può certo aggiungere che non uno di quelli generati dai bravissimi attori può ritenersi superfluo.

La recitazione asciutta di ognuno di loro - certamente voluta da scelte di regia - non deborda mai sull'inutile argine didascalico, risultando sempre precisa, a tratti minimalista, lasciando così il dovuto spazio agli eventi emotivamente ingombranti di cui si narra. Attori allora che con maestria si fanno strumento discreto e allo stesso tempo dirompente, per informarci dell’intensità del dolore vissuto dagli esseri umani derelitti, offesi da un mondo che continua a dimenticarli. Impossibile, solo per fare un esempio, non menzionare quello che io definirei come il “monologo della finestra” di Mimmo, uno degli “spaccati”, il più sfortunato di loro, interpretato dallo straordinario Filippo Luna. In quel momento, quando Mimmo si rivolge a Luisa (Selene Caramazza) vi si trova concentrata tutta l'espressione del dolore immane vissuto da chi, per spirito di sopravvivenza, si presta a farsi vittima remunerata.

La regia mostra pure un coraggio quasi del tutto assente in gran parte del cinema italiano, purtroppo asfittico ultimamente sul piano dei contenuti. Pirrotta infatti fa muovere i personaggi del suo racconto dentro uno scenario cittadino periferico, fatiscente, abbrutito da un'architettura povera e sommersa dagli scarti della società dei consumi, offrendoci così un affresco realistico della città di Palermo, mostrandocela per quella che in effetti è, senza indulgere nella tentazione di edulcorarne gli aspetti più sgradevoli. Contesto urbano che incarna perfettamente la miseria esistenziale entro cui si dibattono, su fronti opposti, gli attori delle tragiche vicende.

Ed è sorprendente - ma poi non così tanto se si possiede un occhio sociologicamente addestrato - il fatto che il gruppo di delinquenti capeggiato da Michele, quello più "studiato" di tutta la combriccola, ovvero la persona che più di tutti conosce le regole delle assicurazioni e che per tale ragione tiene le fila di tutto l'ingranaggio, non stupisce dicevo la capacità di questo piccolo gruppo di truffatori di rispecchiare gli ingiusti disequilibri presenti nella società più ampia.

Nel gruppo criminale troviamo allora chi, in virtù di conoscenze maggiori possedute, agisce sui più fragili dell'organizzazione con estrema violenza simbolica, escludendoli dalle decisioni che contano e, sul piano materiale, lasciandoli a bocca asciutta, senza un soldo nelle tasche. È questo il destino di Vincenzo, procacciatore di "clienti", il quale per eccesso di sensibilità appare agli occhi del capo come soggetto troppo delicato nei modi e quindi considerato tassello debole, inaffidabile, da neutralizzare. Persino agli occhi della madre, prevaricatrice surrentizia (una splendida Aurora Quattrocchi), Vincenzo rimane un fragile che per tale ragione occorre guidare nelle scelte, spingendolo a prendere decisioni che per indole forse non sarebbe capace di prendere. Vincenzo diventa quindi per il resto della banda membro infido per la debolezza mostrata e pertanto da tenere fuori dai giochi che contano.

Un’ultima considerazione riguarda l’uso del dialetto siciliano, di valenza pasoliniana, quale lingua ufficiale per tutti i personaggi del film. Una scelta giusta e necessaria entro i confini di simili tematiche, perché lingua dalle capacità espressive impareggiabili che aggiunta alla recitazione fluida di tutti gli attori, nessuno escluso, rende ancor più vivida la rappresentazione delle vicende e dunque perfetto l'intero meccanismo filmico. Persino la scelta dei nomignoli, che ricordano le “ingiurie” usate nei paesi della provincia per identificare i ceppi familiari tramite l’esaltazione dei loro difetti, risultano azzeccati come quello di “Machinetta” per il personaggio intepretato dal magnifico Luigi Lo Cascio, o “Fasulina” messo in scena da Maziar Firouzi e infine “Azzusa” incarnato da Paride Ciciriello.

Spaccaossa è allora film di grande spessore, dove nulla di ciò che viene raccontato, nulla della recitazione, delle musiche, degli scenari, degli sguardi, dei dialoghi secchi, risulta fuori posto, persino i dettagli piu piccoli non sono lasciati al caso come le automobili démodé, i vestiti lisi, gli arredi unti, i magazzini con la roba affastellata alla rinfusa. Ma uno in particolare mi è rimasto impresso nella memoria, quello che si rintraccia nella scena che chiude il racconto ma che per ovvie ragioni non posso svelare in questa sede, che testimonia di tutta l'attenzione della regia. Vi posso solo dare un indizio, osservate attentamente il braccio disteso sul terreno tra erba e munnizza, per cogliere la direzione corretta dei segni su di esso.

Spaccaossa è dunque un affresco di uno spaccato della nostra società che in molti preferiscono relegare immota sulle colonne dei quotidiani, nella sezione dedicata ai fatti di cronaca, ma che in realtà ci vive accanto a poche centinaia di metri dai quartieri bene di tutte le grandi città. E’ una quota significativa di società rimasta incastrata nelle nostre periferie, afflitte da un bruttezza generata dalla miseria materiale, sociale, culturale, quelle stesse periferie dimenticate soprattutto dai politici incapaci di una visione riformatrice del paesaggio urbano, salvo poi ricordarsene temporaneamente alla vigilia di un Election Day.

Film quindi giusto, necessario, diretto, capace di affrontare in modo onesto intellettualmente e apprezzabile sul piano artistico, tematiche dal respiro universale. Sarebbe un errore non impegnare due ore del proprio tempo per vederlo e cercare, in questo modo, di dare risposta alla domanda che informa tutto il film: “Cosa siamo disposti a sacrificare per la nostra sopravvivenza?”.