Sognando un'isola di A. Pellerani

«Sognando un’isola» di Andrea Pellerani era tra i 12 documentari in concorso nella sezione lungometraggi nazionali a Visions du Réel 2021, Festival del cinema di Nyon. Il film girato interamente nella piccola isola giapponese di Ikeshima, in cui ad oggi vive una piccola comunità, è la perfetta metafora, usa e getta, dei nostri tempi. Ne abbiamo discusso con il regista.

«Sognando un’isola» è il titolo del bel documentario girato dal regista ticinese Andrea Pellerani a Ikeshima, un tempo piccolo villaggio di pescatori del Giappone. Negli anni ‘50, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’isola diviene la sede di un’importantissima miniera di carbone che garantirà per cinquant’anni benessere a tutta la nazione. Sono anni di grande produzione e di conseguenza di grande espansione, si costruiscono tantissimi edifici affinché si possano accogliere sul posto le tante famiglie dei minatori, all’insegna del sogno e della prosperità. Fino al 2000 però, perché ad un certo punto la miniera, l'ultima ancora attiva fino a quel momento in Giappone, viene dismessa e centinaia di appartamenti vengono abbandonati in tutta fretta, e così pure le strade, le piazze. Solo una piccola comunità si ostina a restare, perché quei luoghi non sono solo luoghi di produzione ma spazi in cui le persone hanno costruito le loro esistenze. Sono gli spazi dell’affettività che si identificano, per loro, con la scuola, undici insegnanti per due soli studenti, due fratelli, che non sanno nulla del mondo, quello vero, e seguono lezioni personalizzate. Un centro per gli anziani, dove Pellerani filma una festa alla quale partecipano anche i bambini e gli insegnanti e nella quale c’è sincera gioia, perché in fondo abbiamo bisogno di così poco per stare bene. Ed il negozio di souvenir, unico commercio aperto sull’isola, in eterna attesa dei pochi turisti.

In questo luogo surreale, dove la natura si abbarbica angosciosamente sul cemento, sugli edifici dell’abbandono, Andrea Pellerani fa scorrere le immagini una dopo l’altra, come in una struggente e lenta agonia, per denunciare un modello di economia di sfruttamento che non potrà resistere ancora per molto.

«Andrea Pellerani, perché ha scelto proprio l’isola di Ikeshima?»

«Ero in Giappone, a Nagasaki, ospite di una persona del posto. Stavo facendo delle ricerche di luoghi abbandonati, per molti artisti, me compreso, fonte di grande ispirazione, quando questa persona mi disse: «Ma lo sai che mio fratello abita vicino ad un’isola quasi del tutto abbandonata, dove però una piccola comunità si ostina a vivere? Ti interessa?». Andammo subito a vedere. Rimasi colpito da questo contrasto: Ikeshima non è solo un luogo abbandonato è anche un luogo vivo che ha dell’assurdo».

«Che tipo di comunità ha trovato?»

«Sono persone che vogliono una vita tranquilla, vogliono vivere in pace. C’è però una grande nostalgia del passato, dei bei tempi, quando la miniera funzionava a pieno ritmo, sebbene abbiano la consapevolezza che quel tempo non ritornerà mai più».

«Secondo lei, sarà possibile una riqualificazione di questi spazi?»

«Non credo. Attualmente non c’è nessun progetto concreto e la stessa comunità è molto divisa. Ci vorrebbero troppi soldi. Una parte della comunità vorrebbe fare di Ikeshima un museo a cielo aperto (più grande di quello attuale), puntare su un turismo industriale e far conoscere questa miniera che un tempo fu all’avanguardia per la tecnologia utilizzata: tanto per dire, il trenino elettrico sotterraneo che portava i minatori al lavoro, era il più veloce al mondo. Ikeshima è il simbolo dei nostri tempi, è difficile ridare un’altra vita a questi luoghi e il problema ambientale, in assoluto quello più grave, è evidente che è irrisolto ed è un problema concreto che mette in dubbio il nostro futuro».

«Cosa ha pensato mentre filmava questi spazi vuoti e spogli?»

«Camminare tra i palazzi abbandonati di Ikeshima è un’esperienza che rende introspettivi, si tende a volersi appropriare mentalmente di questi spazi, riempiendoli con la propria fantasia e forse anche proiettando in essi le proprie memorie. È come se lì, la realtà volesse fuggire altrove, perché tutto ciò che accade si scontra con una scenografia sbagliata».

«Perché farne un documentario?»

«Per me l’immagine è uno dei mezzi più evocativi che abbiamo, fotografa il nostro presente ed è un documento dei nostri tempi. L'isola di Ikeshima è un luogo che sembra mostrarci un ipotetico futuro, suggerendone le insidie, la fragilità di ciò che costruiamo ma anche quali sono i valori e le cose più importanti di una comunità».