Nella foto: Silvano Agosti

Siamo a Roma, nel cuore del quartiere Prati. In una traversa di Via Ottaviano troviamo un cinema, ma non un cinema qualunque, quello che viene definito «il piccolo Louvre del cinema». L'Azzurro Scipioni. Un vero e proprio monumento, aperto nel 1983, che ha ospitato le pellicole di Fellini, Antonioni, Bertolucci, Monicelli, Scola ma anche Kaurismaki, Bergman e molti altri.

Qualche mese fa la notizia: l'Azzurro Scipioni avrebbe chiuso. A darla il suo patron, custode e responsabile, il regista Silvano Agosti. Purtroppo le misure restrittive introdotte a causa del Covid 19, che hanno imposto la chiusura dei luoghi di ritrovo e, i costi di affitto, hanno reso impossibile continuare a gestire le spese della sala.

Poi, il lieto fine. Nessuna chiusura all'orizzonte. Sarà la BNL del gruppo bancario BNP – Paribas a garantire continuità alla storica sala.

Noi abbiamo incontrato Silvano Agosti.

«Silvano, regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, scrittore, filosofo, saggista. Tu ti definisci solamente "essere umano" lo so, però se dovessimo prendere una voce da questo elenco qual è la definizione nella quale ti ritrovi di più?»

«Creativo. Creativo perché mi è impossibile ripetere una cosa. Le persone sono figlie delle ripetizioni e si stufano, mentre la creatività non è solo un modo di udire, di parlare, di pensare, è vero cibo dell'anima. C'è una mia poesia che recita «Ti ritroverò anche sulle strade che svaniscono ai tuoi passi», ecco, per me la creatività è una strada che svanisce nell'opera d'arte. Le persone non imparano mai da quello che stanno facendo, lo fanno meccanicamente. Potrebbero farlo più creativamente e, forse sarebbe meglio».

«Quando hai sentito dentro di te il bisogno, la necessità di comunicare attraverso il linguaggio cinematografico?»

«Io personalmente considero il cinema il linguaggio dell'invisibile, ed è difficilissimo. Infatti in tutti i miei film non esiste la trama, tutto è narrato con l'immagine, è l'immagine che vince. La parola ha una ruolo secondario. Non è come nella letteratura, dove la trama è importantissima. Io credo che il cinema comunica quando tace. Io non volevo che il mio cinema si basasse sulla parola».

«A 29 anni tu realizzi «Il giardino delle delizie» che, nel '67, all'Esposizione Universale di Montreal fu definito uno dei dieci film più importanti al mondo. Qui in Italia fu fortemente censurato. Immagino che tu sapessi che mettendo su pellicola determinate storie saresti finito nel mirino della censura. Come la vivevi?»

«Intanto, io non ho mai messo i miei film nelle sale cinematografiche, ho vissuto un po' una vita da «partigiano» e la vivo tutt'ora. Io mi sono nascosto tutta la vita, da un punto di vista anche cinematografico. Ai miei film do la qualità di qualcosa che contiene passato presente e futuro. Una sorta di immortalità, perché per me la vita è un fenomeno che cerca di essere immortale».

«Anche tu con le tue opere stai lasciando una traccia immortale. Perché le opere si perpetuano e fino a quando ci sarà qualcuno che guarderà i tuoi film tu sarai immortale».

«Sì, questo è vero. Però, devi sapere, che io non appartengo alla cultura ufficiale. Sono un ostacolo. Un po' perché trovo terribile che il cinema si sia fatto sopraffare dalla televisione e l'idea di fare un film non è più un'idea eroica».

«Se tu dovessi tornare indietro nel tempo e ti dicessero che di tutta la tua filmografia puoi realizzare un solo film, qual è quello che sceglieresti. Quello sul quale ricadrebbe la tua scelta?»

«Posso tranquillamente dire qualsiasi mio film, ma non «Nel più alto dei cieli». Anche se lo ritengo il mio film più coraggioso in assoluto. Ogni mio film è il prediletto, come una mamma con i figli, «Nel più alto dei cieli» è un po' il figlio problematico. Un film molto inquietante, perché ho rappresentato l'umanità».

«Vorrei parlare con te dell'Azzurro Scipioni. Io so che nasce da un sogno. Charlie Chaplin ti è venuto in sogno e ti ha detto «Qui devi aprire il tuo cinema»

«No, «qui devi aprire il tuo cinema» lo dicono ai santi» (ride). «Nel sogno Charlie Chaplin mi ha detto «Ma non vedi che il cinema è chiuso?» e io ho risposto: «E allora adesso lo apriamo». Questo accadeva quarantadue anni fa. E sono andato avanti a gestirlo sempre. Anche nelle difficoltà. Il "peccato" che compie un cinema come il mio può essere che non proietta mai film che possono definirsi industriali ma proietta solo capolavori. Lo spettatore ha diritto di vedere i capolavori. E quando le persone si abituano ai capolavori non vanno più a vedere il cinema industriale. Mi sono accorto del valore dell'Azzurro Scipioni quando ho detto che lo dovevo chiudere. E' successo un pandemonio» (sorride). «Le persone hanno dimostrato verso l’Azzurro Scipioni un amore viscerale. Non ero consapevole di questo, si è creato un vero e proprio monsone emotivo. Così, quando l'Azzurro Scipioni riaprirà, io continuerò a perseguire questa linea, a dare al capolavoro il primo posto».

«Silvano, ti va se chiudiamo quest'intervista con i tuoi versi?»

«Ti lascio il Testamento del poeta:

Lascio i miei versi
a chi li leggerà,
le mie carezze
ai ladri e agli assassini.

Lascio i miei sogni
a chi non trova pace
e le mie lacrime
a ogni donna sola.

Lascio il mio sguardo
a chi crede di aver visto
e i miei sorrisi
alle divinità in declino.

A te, figlio mio,
lascio il mio tempo,
lo smisurato tempo
di chi vive.