nella foto Tiziano Scarpa

Venerdì 9 dicembre scorso, presso la Maison Dufour di Ginevra, si è tenuto un incontro con Tiziano Scarpa, organizzato dalla Società Dante Alighieri. In un’atmosfera raccolta, la Direttrice dei corsi di lingua italiana Caterina Di Biase ha presentato il poeta, romanziere e drammaturgo veneziano, ricordando i suoi libri più conosciuti, dal romanzo Stabat Mater (che gli è valso il Premio Strega nel 2009), ambientato nell’Ospedale della Pietà a Venezia, dove Antonio Vivaldi insegnava la musica alle orfane e dove Scarpa ha confidato di aver aperto gli occhi, pur non essendo orfano, a Venezia è un pesce, guida sensoriale della città sulla laguna.

Il poeta, vestito di nero, un colore che ha fatto dimenticare l’abito per lasciar vibrare la voce in tutte le sue sfumature, ha recitato alcuni suoi testi. Non ha letto, mai. Le parole sono Tiziano Scarpa e da lui sgorgano. Generoso e attento al pubblico, composto da italiani ma anche da stranieri che studiano la nostra lingua, l’autore ha alternato versi e chiose che permettevano di capirli meglio, in contesto. Ecco “L’elogio dell’arachide”, in settenari rimati, poesia tratta da Gosos per il nostro tempo – i gosos, ha spiegato, sono una forma poetica della tradizione sarda: lodi ed elogi dedicati a Dio e ai santi. I suoi, li ha dedicati a persone, animali, piante e oggetti. Lo scrittore ammira l’arachide, pianta di cui nessuno o pochi sanno che fruttifica scavando nel suolo. Come lei, vorrebbe “fiorire/ in piena luce”, “crescere all’ingiù”, “trapanare il suolo” e “dare frutti al buio”.

Piano piano, il pubblico ha assistito e poi ha preso parte a un rito animistico. È stata infatti la volta della “Caffettiera”, in ottonari. Da oggetto quotidiano – objeu (objet e jeu), secondo il termine coniato dal grande poeta francese Francis Ponge, che Tiziano Scarpa ricorda, nell’attenzione maniacale e ludica all’oggetto – la caffettiera è diventata feticcio, essere vivente gorgogliante e ridente, donna sensuale dai fianchi larghi. In uno scambio di essenze, lo scrittore ha voluto assomigliarle e come lei ridere, di cuore, pancia, gambe, polmoni, talloni, gola, polpacci e ginocchia, ridere di polsi e persino di testicoli e chiappe. La caffettiera è oggetto di culto, cui il poeta ha offerto il suo tributo di parole. Da semplice spettatore, chi ha visto e ascoltato è stato chiamato a partecipare, a immaginare, eleggendo fra gli oggetti del proprio ambiente, quello che lo rappresentava o verso cui provava trasporto. E lo spettatore ha accettato di entrare nel gioco. Una voce timida ha nominato e così trasformato il suo oggetto, poi un’altra e un’altra ancora. Quasi tutti hanno chiamato il loro oggetto-feticcio a voce alta. Altri nel loro intimo.

L’ambiente di Tiziano Scarpa, ci ha confessato lui, sono le parole, che hanno una veste sonora, un ritmo, una pulsazione, un battito cardiaco, una sistole e una diastole, un’anima batteristica. Così il poeta si è lanciato in un’esecuzione del Poema sinfonico per 100 metronomi di György Ligeti, ma per metronomo solo. L’oggetto, il metronomo, è diventato protagonista. È partito veloce poi ha rallentato, ha prodotto un vuoto di densità, si è esaurito, finché la molla si è scaricata del tutto. La parola dello scrittore si nutre di ascolto e silenzio.

In un mondo fitto di corrispondenze, dopo aver evocato una pianta e un oggetto, Tiziano Scarpa ha nominato un essere umano che ammira, per il suo coraggio civile – Marco Cappato, disposto a rischiare il carcere per ciò che ritiene giusto, il diritto all’eutanasia. Ha chiuso lo spettacolo con un insetto, la libellula, protagonista di Una libellula di città, che dà il nome alla raccolta eponima, in endecasillabi o decasillabi con rima baciata. Vola angosciata, la libellula, perché “Una libellula di città / lo sa che tanto non durerà”, incontra predatori e compagni di strada, vede luci grandi e piccole, prima di abituarsi al buio.

Ciò che rende la poesia di Tiziano Scarpa non facile, ma accessibile, esperienza condivisa, è la sua dimensione narrativa. Il pubblico stregato gli ha rivolto una pioggia di domande e lui, umile, ha risposto a tutti, aprendo le porte della sua officina. Quando ha cominciato a scrivere? Da ragazzino, perché trovava nei libri quello che gli adulti non gli dicevano, spesso per proteggerlo: la verità sui rapporti umani, sulle cose brutte e su quelle belle, sulla sensualità. A quattordici, quindici anni ha iniziato a scrivere e all’università ha deluso i suoi genitori scegliendo di studiare la letteratura. Per potersi dedicare alla sua passione, ha svolto una serie di lavori precari: cuoco, redattore in cataloghi di cinema e bibliotecario, ripetitore di latino. Per lo scrittore, quindi, ci sono le nuvole, però c’è anche il problema della sopravvivenza: lo ricorda il titolo della raccolta Le nuvole e i soldi.

 

Consigli di lettura

  • Una famiglia del Nord Italia, tra l’inizio di un secolo e l’avvento di un altro, una metamorfosi continua tra esodo e deriva, dalle montagne alla pianura, dal borgo alla periferia, dai campi alle fabbriche. Il tempo che scorre, il passato che tesse il destino, la nebbia che sale dal futuro; in mezzo un presente che sembra durare per sempre e che è l’unico orizzonte visibile, teatro delle possibilità e gabbia dei desideri.

  • Daria è la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre, che sulla soglia dei cinquant'anni scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontarle la loro storia. Tutto passa attraverso i corpi di Ada e di Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza. Le parole attraversano il tempo, in un costante intreccio tra passato e presente. Un racconto di straordinaria forza e verità, in cui ogni istante vissuto è offerto al lettore come un dono.