Il codice del disonore, donne che fanno tremare la ‘ndrangheta (Einaudi, 2019) della giornalista Dina Lauricella, è un bel libro, nel quale si racconta uno spaccato agghiacciante delle famiglie mafiose calabresi, ovvero l’esistenza di un codice d’onore che costringe tante giovani donne a vivere segregate in casa, mentre i mariti sono in galera. E se ci si ribella, o ci si innamora di un altro uomo, la famiglia infligge alle malcapitate una terribile punizione.

«O noi, o loro», è questo che chiede la madre di Maria Concetta Cacciola alla figlia, che ha deciso di collaborare con la giustizia ed è fuggita al Nord. Per noi intende la famiglia (mafiosa), per loro, la giustizia e le forze dell’ordine.

La storia di Maria Concetta Cacciola è simile ad altre storie di giovani donne calabresi che hanno deciso di collaborare, svelando quello che sapevano dell’organizzazione, pur di fuggire di casa e salvare sé stesse e i figli. Sono giovani donne, madri di due, tre figli, e vivono letteralmente recluse in casa, sorvegliate a vista dalle suocere. Assoggettate ai valori della famiglia di ‘ndrangheta, queste donne non sanno cosa sia il mondo reale, se non tramite internet e i social.

E difatti, sono stati proprio i social, secondo l'autrice Dina Lauricella, che in passato ha collaborato con «La Repubblica», «L'Espresso» e «Il Fatto Quotidiano» e oggi collabora per RaiTre, la causa di diversi gesti di rivolta nelle ragazze, che magari, nel frattempo, si erano innamorate di un uomo conosciuto su Facebook, proprio come la Cacciola, che scappa al Nord e disonora così il padre e la famiglia.

Il fenomeno è stato più forte tra il 2010 e il 2015, probabilmente dopo il gesto coraggioso di Giuseppina Pesce, che nel 2010 per prima fuggì, collaborò e fece nomi e cognomi dell’organizzazione. La rivolta di queste donne disperate, ha permesso di conoscere meglio quali siano le regole spaventose all’interno delle famiglie di ‘ndrangheta.

Del libro, e più in generale di mafia, ne abbiamo discusso con la giornalista Dina Lauricella.

«Il codice del disonore non è un vero e proprio saggio, l’io narrante racconta in prima persona, prende posizione, si sorprende, il che, a mio avviso, è un punto di forza del libro. Perché questa scelta?»

«Ho dovuto usare la prima persona perché dovevo raccontare come ero stata contattata da Alba A., e come erano proseguite le nostre comunicazioni nei mesi successivi. Non è stato facile scrivere alla prima persona. Tra parentesi, secondo me, l’unico che ha diritto di farlo è lo scrittore francese Emmanuel Carrère. Detto ciò, Il codice del disonore è, in effetti, un saggio anomalo ma anche un libro più semplice da leggere rispetto ai saggi tradizionali. E questo era l’obiettivo mio e dell’editore. Non volevo scrivere un libro per addetti ai lavori, volevo fare divulgazione».

«Quindi tutto inizia realmente con Alba A., una giovane donna che sta collaborando con la giustizia, che vuole essere intervistata?»

«Esattamente. In attesa di incontrarla ho cominciato a documentarmi sul suo caso e poi ho scoperto casi simili. È grazie a lei se ho potuto raccontare questo spaccato, quasi inedito, che io per prima non conoscevo. È grazie ad Alba A. se ho capito l’importanza delle altre storie. Da palermitana conoscevo la mafia, il pizzo, le stragi, erroneamente però, fino a poco tempo fa, avevo paragonato la ‘ndrangheta a Cosa Nostra, e invece, mi sono resa conto che la ‘ndrangheta è profondamente diversa».

«Per esempio?»

«Cosa Nostra trattava così le sue donne cinquanta anni fa. Anche in Sicilia le donne sono state uccise o punite se trasgredivano, ma cinquanta anni fa e nell’entroterra siciliano. Mi fa molta impressione parlarne oggi».

«Anche se è importante che se ne parli»

«Certo. Soprattutto in questi anni in cui è mancato il coinvolgimento dell’opinione pubblica. Quello che voglio dire è che si è parlato molto di mafia durante il Maxiprocesso di Palermo, e poi nel periodo delle stragi. In quelle occasioni, i media furono costretti ad occuparsi di mafia perché Cosa Nostra aveva sfidato lo Stato e quindi non si poteva tacere. Oggi, la voce mafia non è più nell’agenda politica e quindi i media non ne parlano. Quello che mi preoccupa è che ormai, da decenni, non c’è un serio progetto antimafia. Invece, è necessario riportare al più presto l’attenzione su questo tema. Dico di più: dalle inchieste è emerso chiaramente che la ‘ndrangheta teme due cose, il sequestro dei beni e la fuga delle donne. Se si investisse di più, affinché altre Giuseppina Pesce possano rompere con le famiglie di ‘ndrangheta, avremmo un'antimafia naturale fortissima. Il problema è che tecnicamente queste donne non sono né collaboratrici, né testimoni, perché spesso non hanno alcun ruolo nell’organizzazione, perciò sono considerate delle «dissociate», che è un termine ambiguo. Allo Stato, però, converrebbe sostenere la lotta di queste donne per scardinare un sistema di valori di tipo mafioso, perché in fondo quello che vogliono queste donne è evitare che i figli crescano in un contesto mafioso e criminale. Affinché tutto ciò accada senza rischi, occorre rivedere le leggi, per garantire loro più sicurezza. Se i percorsi sono tutelati, ci saranno sempre più donne che si dissociano. Ma bisogna volerla fare questa guerra alla mafia...».

«Con la storia di Maria Concetta Cacciola si è capita una cosa molto importante: non si possono separare le madri dai figli».

«Quello di Maria Concetta Cacciola, purtroppo, è stato il caso «palestra», la figlia del boss che si innamora e vuole scappare dalla Calabria… nessuno pensava che potesse accadere! All’inizio, però, fu lei a dire che preferiva partire senza i figli. Solo dopo, si è capito che non è possibile separare le madri dai figli, perché così le donne non ce la fanno, prima o poi si rimettono in contatto con le famiglie per sapere come stanno. E per loro è la fine».

«Personalmente mi ha molto turbata la storia di Maria Stefanelli. Sono rimasta molto colpita dalla determinazione di questa donna che, nonostante tutto quello che aveva vissuto da ragazza, ha provato, in tutti i modi, ad avere un vita normale. Da questa storia ho scoperto che la ‘ndrangheta era presente al Nord d’Italia già negli anni ‘90»

«In verità, le prime famiglie di ‘ndrangheta si trasferiscono al Nord già negli anni ‘70. Al tempo erano l’Anonima sequestri. Scoprono però sul territorio il business della droga, molto più remunerativo e quindi si trasformano. Quello che mi colpisce oggi, è la continua mistificazione della presenza della ‘ndrangheta al Nord. L’Emilia Romagna è tempestata di inchieste, ormai il suo tessuto economico è completamente impregnato dalla presenza mafiosa, e così pure il Veneto, la Valle d’Aosta ecc…, eppure si parla di infiltrazione mafiosa. Ma il termine è scorretto! Se mi infiltro lo faccio all’insaputa di tutti. Nel caso dell’economia, queste persone oggi vengono cercate, per poter aver danaro liquido, per avere aiuto. La mafia oggi è una società di servizi a cui la società civile si rivolge. Altro che infiltrazione!».

«Che volto ha la mafia di oggi?»

«Per molti la mafia è Toto Riina, è Provenzano. Ma, in realtà, se oggi dovessimo mettere in prima pagina le foto dei mafiosi, queste dovrebbero essere le foto degli amministratori locali, dei sindaci, dei manager delle grandi aziende. Questo è il nuovo volto della mafia».

«È evidente che questa lotta alla mafia non la si vuole fare»

«Oggi si parla di mafia solo quando si parla del processo sulla trattativa Stato-mafia. Come dicevo prima, la comunicazione segue l’agenda politica. Se la politica non mette in agenda un punto dedicato alla mafia, i media non ne parleranno. Dall’inizio del 2020 a Foggia sono state messe quattro bombe! Quattro! Ma cosa stiamo aspettando per intervenire? La Sacra Corona Unita oggi è una mafia potentissima, è una minaccia nazionale pazzesca! Eppure non mi sembra che la politica si sia data, a breve, degli obiettivi da raggiungere».

«Come è stato accolto il libro?»

«Non avrei mai pensato che si potessero riempire intere sale in Trentino, in Veneto. Il pubblico, nelle presentazioni che ho fatto, era desideroso di saperne di più ed era indignato. Non è vero che il tema mafia non interessa. Io ho trovato molta attenzione da parte di un pubblico eterogeneo: bambini, giovani, adulti, donne. L’idea che un figlio uccida la propria madre, perché ha una relazione extra-coniugale, per difendere l’onore della famiglia, nel 2020, lascia tutti basiti, me compresa, ovviamente. Che queste donne siano costrette, nel 2020, a fare dei matrimoni combinati, è sconvolgente».

«Pensavamo fossero consenzienti, e invece non lo sono»

«Oggi sappiamo e non possiamo più far finta di nulla. Non possiamo abbandonarle. Giuseppina Pesce nel 2010 raccontò che fine avessero fatto tante donne della sua famiglia, di cui nessuno aveva denunciato la scomparsa. Lei parlò di omicidi e fece nomi e cognomi e il motivo delle uccisioni. Oggi più che mai occorre fare un lavoro culturale. Quando uscì il libro, il 2 luglio 2019, ero nella Piana di Gioia Tauro. Cercavo una libreria. Sul telefonino ne trovai una a Catania, e una a Cosenza… La Calabria è una terra bellissima, il contrasto tra orrore e bellezza fa male. C’è tanta gente onesta, che ha una grandissima dignità, penso al papà di Pioli, il cui figlio è stato ucciso perché aveva una relazione con una donna sposata di una famiglia di ‘ndrangheta. Se penso a quel bel volto di quel papà, mi dico: «non possiamo abbandonarli».

 

Dina Lauricella, sullo stesso tema, ha realizzato due bellissimi reportage:

Disonora il padre (prima parte)

Disonora il padre (seconda parte)

 

Dina Lauricella, palermitana, vive a Roma. Ha collaborato con «La Repubblica», «L'Espresso», «Il Fatto Quotidiano» e Radio Capital. Arriva in Rai nel 2003 e dal 2007 firma diversi speciali per Michele Santoro, fra cui: Inferno Atomico, premio della critica Ilaria Alpi; Cosa vostra, dove intervista per la prima volta in tv il figlio di Provenzano e Stato criminale, che trae spunto dal libro di cui è autrice con Rosalba Di Gregorio, Dalla parte sbagliata. La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di Via D'Amelio (Castelvecchi 2014, 2018), premio Marco Nozza per il giornalismo d'inchiesta.Nel 2014 vince il premio nazionale Paolo Borsellino (Targa del Presidente della Repubblica) per il giornalismo. Oggi collabora con Rai3.

Consigli di lettura

  • Una famiglia del Nord Italia, tra l’inizio di un secolo e l’avvento di un altro, una metamorfosi continua tra esodo e deriva, dalle montagne alla pianura, dal borgo alla periferia, dai campi alle fabbriche. Il tempo che scorre, il passato che tesse il destino, la nebbia che sale dal futuro; in mezzo un presente che sembra durare per sempre e che è l’unico orizzonte visibile, teatro delle possibilità e gabbia dei desideri.

  • Daria è la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre, che sulla soglia dei cinquant'anni scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontarle la loro storia. Tutto passa attraverso i corpi di Ada e di Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza. Le parole attraversano il tempo, in un costante intreccio tra passato e presente. Un racconto di straordinaria forza e verità, in cui ogni istante vissuto è offerto al lettore come un dono.