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Chi di noi non si è mai confrontato con una sconfitta nello sport? Da sportivi e/o da genitori spesso l'esperienza della sconfitta risulta di difficile gestione emotiva. Rabbia e frustrazione possono travolgerci. La psicologa e psicoterapeuta Mara Manno, con le sue riflessioni, ci dà alcuni suggerimenti.

Rifletto sovente sulle implicazioni che la vittoria e la sconfitta hanno sulla vita e sulla psiche del soggetto che le sperimenta.

Per un agonista il detto: “l’importante è partecipare e non vincere” risulta una forzatura e non sempre condivisibile. Viene da chiedersi cosa c’è dietro una vittoria o una sconfitta sul piano psicologico. Vincere sul campo non è solo un piacere narcisistico di superiorità nei confronti dell’avversario, ma una risposta a se stessi circa le proprie capacità e potenzialità che, lungi dal rimanere sul campo di gioco, vengono generalizzate nella vita di ogni giorno.

Certo dietro a una vittoria c’è spesso sacrificio, impegno e investimento del proprio tempo e delle proprie energie; quindi la vittoria è come se ricompensasse gli sforzi fatti, divenendo altresì, un potente rinforzo per andare avanti. In questi termini lo sport sembrerebbe ripercorrere le logiche della vita stessa, con i suoi successi ed insuccessi. La voglia di vincere ci spinge a far bene, a impegnarci per raggiungere degli obiettivi. Di contro la sconfitta può demoralizzarci, anche se ci aiuta ad affrontare e gestire la frustrazione.

Ma cosa succede se le sconfitte superano le vittorie? Qual è il rischio che il soggetto corre di fronte a ripetuti insuccessi?

C’è chi abbandona, malgrado le proprie potenzialità; c’è chi non riesce a gestire le pressioni che da più parti e a tutti i livelli arrivano. Il rovescio della medaglia: tanti onori per una vittoria e improvvisamente tante critiche per una sconfitta.

L’approccio cognitivista ci viene in soccorso insegnandoci che non sono le cose che ci toccano, ma l’idea che ci facciamo di queste cose. Quindi forse abbiamo bisogno di interrogarci sulle modalità più corrette per guardare alla vittoria e alla sconfitta. Devo vincere, forse è questo il vero problema. La posizione rigida e irremovibile dell’obbligatorietà interna, che spesso paralizza e genera ansia, tanto dal non farci accettare la sconfitta, ci spinge a percepire sensazioni e sentimenti non sempre pregevoli. Sentimenti di astio contro il nostro avversario o forme di aggressività incontenibile contro chi, per un motivo o un altro, si frappone tra noi e il nostro obiettivo di vittoria.

Un cambiamento di prospettiva volta più al “voglio” che al “devo” penso aiuterebbe senz’altro ad abbassare le pressioni interne senza compromettere l’impegno e la determinazione che contraddistinguono qualsiasi attività agonistica.

Interrogarsi è d’obbligo: devo vincere perché tutti si aspettano che io lo faccia? Perché in caso contrario risulterei di scarso valore? Perché una volta che assaporo la gloria della vittoria non ne posso più fare a meno? O voglio vincere perché mi dà piacere? Perché mi ricompensa delle fatiche fatte?

La differenza sostanziale sta nel fatto che “il devo” imbriglia in una posizione che, se non raggiunta, pone l’individuo dentro uno stato di svalutazione, che non riguarda solo la performance ma l’intera persona. “Il voglio” dà la chance di riprovarci, di mitigare la svalutazione di sé e pone la vittoria come uno dei possibili scenari e non l’unico accettabile. Quindi è evidente come quest’ultima prospettiva ponga il soggetto dentro a una posizione meno ansiogena e più costruttiva, oltre che efficace.